Superficie 74
Giuseppe Capogrossi
1953
olio su tela
73 x 60 cm (senza cornice);
92,9x 79x 4,5 cm(con cornice)
1
Anno di acquisizione 1991
N. Catalogo A78
Inv. 0086
Provenienza
Nel dipinto in questione si notano «pettini» di tre misure differenti, singoli o a gruppi, impaginati su un fondo grigio attraversato, alludendo quasi a una rete viaria vista dall’alto, da due bande bianche che si incrociano perpendicolarmente in posizione decentrata.
Dopo l’esordio degli anni trenta nel clima della Scuola Romana, alla fine del decennio successivo Giuseppe Capogrossi inizia a elaborare un’idea di pittura astratta che lo condurrà nel giro di pochi anni all’ideazione di un segno a pettine come elemento base di tutta la sua produzione. In questo modo, sviluppando in senso grafico l’idea di «segno» suggerita da Corrado Cagli, rientrato a Roma dagli Stati Uniti, Capogrossi porterà avanti una pittura incentrata su un modulo di riferimento e le sue infinite possibilità di variazione e combinazione sul piano. Nel dipinto in questione, infatti, si notano «pettini» di tre misure differenti, singoli o a gruppi, impaginati su un fondo grigio attraversato, alludendo quasi a una rete viaria vista dall’alto, da due bande bianche che si incrociano perpendicolarmente in posizione decentrata. In alto a destra, invece, un riquadro chiaro isola lo stesso motivo modulare delineato nei suoi contorni, che rispondono alla macchia rossa collocata all’incrocio delle due ortogonali. Superficie 74, acquistata da Francesco Federico Cerruti prima del 1983, cade nel momento più intenso del sodalizio con Carlo Cardazzo, il mercante e collezionista veneziano trapiantato a Milano, e seppur non documentato è plausibile che sia stato esposto nella 201a mostra del Naviglio nel 1955 (11-20 maggio), che fa seguito al successo della sala personale del pittore alla Biennale di Venezia dell’anno precedente, coordinata dal gallerista stesso proponendo dipinti affini a questo per impostazione. In un momento successivo l’opera sarebbe passata nella milanese Collezione Orlando, come riportato nella monografia di Giulio Carlo Argan. In quella stagione Michel Seuphor, presentando la 138a mostra del Naviglio (10-23 gennaio 1953) aveva letto l’opera di Capogrossi alla luce della lezione di Piet Mondrian a cui lo accomuna il principio di lavoro basato su un unico tema visivo, definito come «artiglio», «mano», «tridente» o addirittura «forca», e le sue infinite variazioni. Michel Tapié, invece, lo aveva incluso nelle file degli artisti «autre» e presentandolo alla sua sala alla Biennale del 1954 sosteneva che l’artista aveva «conquistato il suo particolare algoritmo»1, come gli aveva suggerito l’architetto Mario Moretti (non citato) promotore di Capogrossi sulla rivista «Spazio». Cardazzo, invece, aveva incluso l’artista fra le file dello Spazialismo, il movimento a cui ha dato vita a Milano con gli auspici di Lucio Fontana, e in tale veste compare un ampio profilo su di lui ne Lo spazialismo di Giampiero Giani del 1956.
Argan, nell’importante monografia del 1967 corredata dal primo catalogo ragionato dell’opera dell’artista a cura di Maurizio Fagiolo dell’Arco, osserverà che quel segno andava letto come «un simbolo di spazio» che mette in relazione fra loro le varie parti del campo pittorico come «agente di relazione» o «coefficiente spaziale»2. Allo stesso tempo, pensando a dipinti della medesima tipologia di Superficie 74, a cui riserva una riproduzione a piena pagina in bianco e nero3, Argan osservava che Capogrossi lavora come se fosse partito da uno schema ideale in bell’ordine per poterlo poi scompaginare parzialmente o completamente.
[Luca Pietro Nicoletti]
1 M. Tapié, Capogrossi, in Venezia1954, pp. 142-144.
2 G. C. Argan, antologia dei testi e cronistoria, in Fagiolo dell’Arco 1967.
3 Ibid., tav. 19.