San Benedetto tra i rovi
Antonio d’Enrico, detto Tanzio da Varallo
1631-1632 c.
olio su tela
88,3 x 105,5 cm (senza cornice)
111 x 139 x 5 cm (con cornice)
Anno di acquisizione 1971
( indicazione fornita da Tommaso Tovaglieri e Giovanni Agosti in data 13 ottobre 2023)
N. Catalogo A45
Inv. 0054
Provenienza
San Benedetto, e il compagno sant’Onofrio, presentano la stessa scuoiata nudità, quella fisicità che per Tanzio significa non solo passione dell’anatomia ma espressione attraverso il linguaggio del corpo, che è linguaggio specifico della pittura, di ogni contenuto mentale.
Il dipinto è stato reso noto da Wart Arslan nel 1948. Raffigura san Benedetto, per la precisione l’episodio della sua vita narrato nei Dialoghi di san Gregorio Magno e nella Legenda Aurea. Il santo, in Gioventù, raggiunge Subiaco e incontra Romano, monaco in un vicino convento; veste l’abito, si ritira in una grotta impervia del monte Taleo (attualmente compresa all’interno del monastero del Sacro Speco) e vive per tre anni in meditazione. Nell’isolamento, viene tentato dal demonio che lo tormenta con un’immagine di donna a lui nota, allora si spoglia delle vesti e si getta in un cespuglio di rovi: attraverso le ferite della pelle, commenta san Gregorio, si tolgono le ferite dell’anima. Tanzio raffigura il santo intento alla severa penitenza, gli occhi straniati e febbrili, e la sua angoscia spicca immersa nel respiro di alberi e fronde. Un racconto che descrive i giochi di uccelli, scoiattoli e caprioli, e fa luce sulla vita quotidiana dell’eremo; nella piccola scena del fondale, il santo riceve per nutrirsi un pane calato attraverso una corda dal monaco Romano (fig. 1); infine la «lontananza» permette di scorgere l’abitato di Subiaco e la valle dell’Aniene. La figura di Benedetto evoca per associazione altri eremiti della tradizione, come il monaco Paolo di Tebe o anche san Francesco.
Le dimensioni, l’impaginazione del dipinto e i suoi caratteri di stile, l’allucinata presenza del santo, rimandano, per un’associazione inequivocabile, al Sant’Onofrio (olio su tela, 90 x 115,1 cm) in Collezione Koelliker, ma già a Firenze alla Contini Bonacossi. Di primo acchito, abbina le due ricerche di spiritualità alla concezione di wilderness alla base dell’esperienza di san Francesco a La Verna, e leitmotiv della vocazione del pittore. Partito dalla sua Valsesia alla volta di Roma e di Napoli, Tanzio è folgorato dalla rivoluzione di Caravaggio ed elabora un’originale visione del mondo, di attenzione al naturale e insieme di fervida religiosità. Nel giovanile passaggio abruzzese, dove lascia capolavori come la Circoncisione di Fara San Martino e la Madonna e santi di Pescocostanzo, ritrova il fascino aspro dei monti natii; e ai piedi della Maiella elabora intense immagini di San Francesco in preghiera che riceve le stimmate in scenari boscosi e dirupati1. Tornato a Varallo, interviene nel gran teatro del Sacro Monte, allestendo con il fratello Giovanni le drammatiche cappelle della Passione di Cristo.
La sua altissima interpretazione della poetica caravaggesca segna un punto di viraggio con la peste del 1630, aprendo la via a una concitazione mistica declinata in forte risonanza con una natura partecipe, si pensi al Riposo durante la fuga in Egitto di Houston. Questa superba, spettrale coppia di dipinti, se pur richiama le impressioni del giovanile passaggio abruzzese, appartiene a questo sublime finale. San Benedetto, e il compagno sant’Onofrio, presentano la stessa scuoiata nudità, quella fisicità che per Tanzio significa non solo passione dell’anatomia ma espressione attraverso il linguaggio del corpo, che è linguaggio specifico della pittura, di ogni contenuto mentale. Singolare, rispetto alle meditazioni dei vari Battista nel deserto e Gerolamo, dipinti in stretta relazione con modelli caravaggeschi e in piena affinità elettiva con i pittori borromei, è l’estensione dello scenario naturale, una selva magica e incantata che modifica radicalmente il rapporto figura/sfondo. Questo avviene, come nota Giovanni Testori nel 1955, «in libero parallelo con gli esiti dei “Petits-maitres” fiammingo-olandesi, della cerchia Elsheimer/Rubens»2; e Marco Rosci nel 1962 conferma: «la scelta è definitivamente verso il Nord, quasi ritorno alla matrice Walser degli Heinrich d’Alagna»3. Non si tratta solo di un viraggio stilistico, è piuttosto un profondo cambiamento di affetti e di pensieri: la figura del penitente è immersa in un universo che la sovrasta, quasi un’eco silenziosa e assorta alla sua angoscia d’esistere e di aver fede. I corpi degli eremiti registrano l’esplorazione mistica in ogni trasalimento, in ogni brivido, san Benedetto è rapito in una preghiera che è ricerca del mistero e sgomenta consapevolezza. Uno sguardo che ritroviamo nel tormento dei martiri missionari di Nagasaki, e che ritorna, a sigillare il rovello di penitenza e i momenti cruciali dell’iter ascetico di san Francesco, negli affreschi estremi di Borgosesia.
[Filippo Maria Ferro]
Il dipinto di Tanzio da Varallo, tra i migliori interpreti del tardo Manierismo in Piemonte e Lombardia, è attestato in collezione già nel 1993, come dimostra la sua presenza nell’inventario manoscritto del 30 giugno di quell’anno [N.d.R.].
1 F. M. Ferro, Tanzio e la scena del «naturalismo» abruzzese, in Napoli 2014-2015, pp. 61-71; M. Nicolaci, in Ibid., p. 120.
2 G. Testori, in Torino-Ivrea1955, p. 55.
3 Rosci 1962, p. 255.