Decollazione del Battista e presentazione della testa recisa ad Erodiade e ad Erode

Giovanni di Pietro Falloppi, detto Giovanni da Modena

1450 c.
Tempera e oro su tavola
23,3 x 31,2 cm
Anno di acquisizione post 1983


Inv. 0016
N. Catalogo A16


Provenienza

Bibliografia

Primo attore indiscusso della pittura tardogotica a Bologna, con vertice qualitativo fra 1410 e 1420, Giovanni Falloppi fu capace in gioventù di fantasie visionarie, dove il potente metro neogiottesco e borgognone di Alberto da Campione e di Antonio di Vincenzo si caricava di un’espressività infuocata. 

 

Il pannello, a venatura orizzontale, apparteneva a una predella di cui non si conoscono al momento altri elementi, sottoposto con ogni verosimiglianza a una figura di san Giovanni Battista. Lo spessore, esile, è quello originale e sul tergo si individua uno scasso in corrispondenza del rompitratta, vale a dire della tavola tipicamente posta a perpendicolo per rinforzare staticamente la cassa aggettante della predella, fissata con un chiodo, ora segato, visibile a 13,5 cm dal margine sinistro della tavoletta. Di norma i rompitratta erano ben distanziati, uno in asse due ai lati in un polittico di dimensioni ridotte come questo, per cui si può argomentare che il Battista fosse collocato in prossimità del pannello centrale, come del resto abituale per il suo gesto di Prodromo che addita Cristo. Sui lati ci sono resti della cosiddetta «barba», vale a dire del rialzo del gesso dorato sulla cornice originale, poi asportata, per quanto ora assai irregolari e sbocconcellati. Un’incisione a riga su tutti i lati sembra successiva e funzionale alla riquadratura moderna della tavoletta. La superficie presenta alcune svelature, in particolare sulla figura di Erodiade, ma conserva intatte le lamine d’oro per nimbi e corone, d’argento per coltelli, brocche e bicchieri, con profili e rapide ombreggiature a vernice nera, secondo un uso divulgato a partire da Venezia. Il nero è usato pure per campire gli archi della sala del banchetto, la porta e la finestrella della prigione. Una linea nera profilava sui lati il campo pittorico, in corrispondenza della cornice. 

Il dipinto appartenne all’antiquario di Monaco di Baviera Julius Böhler verso il 1957-1961 e allora era stato fantasiosamente attribuito da Giuseppe Fiocco agli Zavattari. Nel 2000, sulla base di una foto d’archivio in bianco e nero, l’ho pubblicato con l’attribuzione a Giovanni da Modena. In ogni dettaglio ricorrono i suoi stilemi, anche se in un’obiettiva incertezza sintattica generale. Sua la linea nervosa, ora spezzata lungo le falde ricadenti a terra delle vesti, ora balzante nell’attorniare volumi tondeggianti, animata dal suo tipico brio, negli sguardi obliqui, come quello pietoso o un po’ smarrito di Erode e in profili pungenti come quello della Salomé che raccoglie la testa mozza del Battista e per così dire la porta in tavola (è questa un fisionomia femminile sua caratteristica, mollemente carnosa, in qualche rapporto anche con le frequentazioni di Jacopo della Quercia, da paragonare ad esempio con l’Ecclesia nel Cristo brachiale della cappella dei Dieci di Balia in San Petronio a Bologna, del 1420). 

Primo attore indiscusso della pittura tardogotica a Bologna, con vertice qualitativo fra 1410 e 1420, Giovanni Falloppi fu capace in gioventù di fantasie visionarie, dove il potente metro neogiottesco e borgognone di Alberto da Campione e di Antonio di Vincenzo si caricava di un’espressività infuocata. Negli ultimi due decenni del suo lungo percorso, a fronte dell’incalzare di linguaggi innovativi, di ben altra maturità naturalistica e illusiva, dovette in qualche modo smarrire la sua forza primitiva e ripiegare in un vernacolo pieno di umore, ma sempre più marginale se considerato in un panorama storico più vasto ed equilibrato. Espressività snervata e umoristica, nonché sbalestrati anacoluti prospettici accomunano questa tavoletta agli esiti estremi del maestro, attestati dalla tela con San Bernardino e otto storie della sua vita, identificata nella Pinacoteca Nazionale di Bologna, sotto il nome erroneo di Michele di Matteo, da Fabio Bisogni1, dipinto pagato al maestro nel 1451, un anno dopo la canonizzazione del santo senese, dall’omonima compagnia presso San Francesco, e che prima di allora nessuno si era sognato di attribuirgli, perché presenta un’obiettiva diminuzione dell’aspra e potente espressività del pittore modenese in un linguaggio ingracilito e divagante, più strampalato che «geniale», negli anni in cui Paolo Uccello aveva lavorato per Bologna e Donatello lavorava a Padova2. La tavoletta di predella si inserisce allora bene nel decennio precedente, a lato dei farraginosi murali con Storie della Passione di Santo Stefano3, del disegno del Kupferstich-Kabinett di Dresda (inv. C. 150) con uno studio per l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti4, dopo i più icastici affreschi della camera nuziale della torre di Passerino nel castello di Carpi, che gli spettano senza dubbio, e l’incisivo pannello con lo Sposalizio della Vergine già a Parigi presso Sambon, non più riemerso, che potrebbe risalire piuttosto al quarto decennio, dove riscontriamo, pur con mano più salda, un modo di evidenziare i rincassi delle modanature architettoniche, nei pennacchi e nelle cornici, identico a quello che si vede nella tavola in esame. 

L’architettura rosata della reggia di Erode è un casamento assai precario, ma vi riaggallano memorie delle composizioni del ciclo della cappella Bolognini, altrimenti grandiose, in particolare della scena col Concilio di Erode che riceve i Tre Magi, per l’inquadramento della camera tra due stipiti coronati da grandi modiglioni, per lo scorcio dei lacunari nel palco ligneo e per un dettaglio minimo come la minuta merlatura al vertice. Memorie involontarie, eppure rivelatrici del fatto che l’artista sia sempre lui, anche se da vecchio, ispirano la silhouette balzante del carnefice, che si torce come in un passo di danza, con le gambe oscillanti, la vita stretta, il gonnellino e il pettorale bombati, in tutto simile, anche se più svagato e disarticolato, alla siglatura dei paggi che compaiono nell’Avvistamento della stella sul monte Vettore e nel Concilio di Erode che riceve i tre Magi, nella cappella Bolognini in San Petronio (1411-1412). 

Date queste doverose premesse, va comunque riconosciuta una freschezza narrativa anche all’ultimo Giovanni da Modena, pur drammaticamente anacronistico, negli anni in cui Donatello gettava in bronzo il grandioso teatro sacro dell’altare del Santo. In questo pannello di predella il racconto è colorito e franto, giustappone in maniera bruciante la decollazione ormai avvenuta, il realismo spigliato del carnefice che rinfodera la spada (un’idea esibita da Pisanello nel perduto San Giorgio che infodera la spada affrescato all’esterno della cappella Pellegrini in Sant’Anastasia a Verona verso il 1436)5, e l’insolito banchetto a due, con la ricca tavola imbandita sopra due precari cavalletti, dove il gesto deciso di una paffuta Erodiade fa contrappunto a quello turbato di Erode. 

Andrea De Marchi 

 

1 In Pavone, Pacelli 1981, p. 43.

2 Si veda G. A. Calogero, cat. 17, in Bologna 2014-2015, pp. 210, 211, dove, come in tutte le altre schede dedicate all’opera e come lamentato invano da Strehlke 1988, pp. 54-57, manca l’identificazione delle scene narrate.

3 Su cui si veda P. Cova, Una testimonianza della tarda attività della bottega di Giovanni da Modena: l’Andata al Calvario e la Crocifissione nel complesso di Santo Stefano, in Bologna 2014-2015, pp. 111-133, di cui non condivido il tentativo di attribuire parte della Crocefissione all’esecuzione del figlio Cesare Falloppi.

4 Su cui si veda Melli 2006, pp. 30-35.

5 Su cui si veda H.-J. Eberhardt, Sulle tracce degli affreschi scomparsi di Sant’Anastasia, in Verona 1996, pp. 165-182.